Scusate il ritardo. Però, dato l'argomento che tratteremo, direi che siamo assolutamente in tema: parliamo del ritardo italiano nel campo dell’innovazione. In questi mesi abbiamo esaminato talmente tante case histories nazionali, con infiniti episodi di cattiva gestione manageriale e scarsa creatività, che c’era solo l’imbarazzo della scelta. Quindi ci torneremo su. È più urgente occuparci dell’innovazione, tema di cui si parla sempre più spesso e inutilmente. Perché l’innovazione è come la Nutella: meno ce n’è, più la si spalma.
Lo spunto viene da un articolo comparso sul webmagazine della finiana fondazione Farefuturo, a proposito di un’iniziativa portata avanti insieme a Glocus, simmetrica fondazione di centrosinistra presieduta dall'ex ministro per gli Affari Regionali del governo Prodi, Linda Lanzillotta. Si tratta dell’unica brezza di venticello che spira attualmente in Italia sul tema: addirittura un ciclo di seminari “per modernizzare il paese”(!). I seminari si terranno a Roma il 18 e 19 giugno prossimi e affronteranno il tema dell’innovazione istituzionale allo scopo di «diffondere la cultura del cambiamento e favorire la modernizzazione del paese». L’articolo cita proprio le parole della Lanzillotta per cui: «Le due fondazioni in sintonia, hanno deciso di cominciare dal basso, a partire dai territori, per formare una nuova classe dirigente che condivida lo stesso sistema di valori». Ora, ben venga l’iniziativa di promuovere il cambiamento nella classe dirigente. Ma questo non significa affatto “cominciare dal basso”. È un’idea di destra, perfino vagamente fascistoide, perché prende in considerazione solo il “quadro di comando” mentre la cultura dell’innovazione dovrebbe essere diffusa a tutti i livelli e in tutto il Paese. E poi, la pubblica amministrazione non ha bisogno di innovazione, deve soltanto funzionare e senza sprechi (un esempio fra i tanti: basterebbero più controlli sui corsi di "formazione" e i corsi di lingue gratuiti per il personale delle amministrazioni, che vengono scelti magari in base alla località in cui si faranno le vacanze).
A parte tutto questo, ci chiediamo: come può un paese profondamente conservatore fare innovazione? E come può una classe dirigente asservita ad una classe politica assolutamente ignorante e impreparata, ricevere gli stimoli giusti per sviluppare una “cultura dell’innovazione”? In quanti decenni riuscirà a farsela, il Paese, questa benedetta cultura? Dopo di che, quanto altro tempo passerà prima che queste buone intenzioni si trasformino concretamente in una produzione industriale competitiva? Ma qui stiamo ancora a buongiorno e buonasera, alla “creazione di un sistema di valori condivisi” come dicono in coro le due fondazioni. Cioè in buona sostanza, alle chiacchiere. Le solite chiacchiere dei politici. Eppure dal Rapporto COTEC 2009 in collaborazione fra il mensile Wired e il CNR risulta evidente che l'unico modo per dare al Paese una "cultura dell'innovazione" è proprio quello di lavorare dal basso con l'informazione, scolastica e mediatica, per uscire dalla nostra drammatica empasse. Io stesso già nel 1985 ho avuto modo di assistere in un mio viaggio in Giappone, a delle formidabili lezioni alle scuole medie superiori. Un'ora "comune", interdisciplinare, in cui gli studenti prendevano parte ad un esperimento di fisica o di chimica, che poi veniva commentato e interpretato con le sue connessioni a molte altre materie da professori delle diverse discipline, dalla geologia, alla storia, fino all'arte, stimolando la capacità di collegare le idee ed in definitiva formando una solida creatività, pre-requisito essenziale per l'innovazione. Un approccio del genere, da noi, l'ho visto attuare solo da Tullio de Mauro, all'università. E comunque, rispetto a quell'idea noi abbiamo ben 25 anni di ritardo: altro che innovare la pubblica amministrazione!
Allora, visto che la cultura nel nostro Paese si fa ormai solo con i quiz televisivi, non vogliamo aggiungere altre chiacchiere, ma contribuiamo anche noi fattivamente alla cultura dell'innovazione con un bel quiz. Ecco i nostri concorrenti. Nella cabina 1 abbiamo il professor Renato Ugo, Presidente dell’Agenzia per la Diffusione delle Tecnologie per l’Innovazione. Nella cabina 2 abbiamo il professor Renato Brunetta, Ministro della Pubblica Amministrazione e dell’Innovazione. Nella cabina 3 c’è Mariastella Gelmini, Ministro dell’Università, della Pubblica Istruzione e della Ricerca. E infine, nella cabina 4, Claudio Scajola, Ministro dello Sviluppo Economico. Potete rispondere anche voi del pubblico, dalle università, dalle industrie in crisi. E, sì, anche voi della pubblica amministrazione (pausa caffè permettendo). Ma veniamo alla nostra domanda: perché in Italia non si producono telefonini cellulari? Pronti con i pulsanti? Via col tempo! Potete prendervela comoda (tanto col ritardo che abbiamo non ci corre dietro più nessuno). Come dice ministro? Non lo sapeva che non ne produciamo? Mi dispiace ma è proprio così. Vuole un suggerimento? D’accordo. Casomai, può tirar fuori il suo cellulare dal taschino per dargli un'occhiata. Guardi bene: si tratta di una tecnologia stupida, poco più di un elettrodomestico comune. Un po’ di plastica, un po’ di silicio. Li producono nazioni vicine, come la Francia, la Germania, l'Olanda, la Svezia, la Finlandia, perfino la Russia. E allora come mai non ci sono cellulari italiani? Tempo scaduto. Era facile, dai! La risposta è: noi non facciamo telefoni cellulari perché questo prodotto, per restare in un mercato tra i più competitivi, richiede continui investimenti nello sviluppo e nella ricerca. E le aziende italiane non solo non vogliono spendere un euro in ricerca, ma non hanno nemmeno sovvenzioni per farlo. Perché? Vuole dirlo Lei signor ministro? Ok, lo dico io. Perché se mai un governo decidesse di offrire sgravi fiscali o (addirittura!) finanziamenti a chi investe nell’innovazione, tutti questi soldi se li terrebbero i soliti imprenditori furbetti che farebbero finta di investire: farebbero al massimo un restyling di prodotti obsoleti tenedosi loro tutti i soldi. Abbiamo esempi ormai storici. Ma anche se per assurdo arrivassero a fabbricarli questi telefonini, nascerebbero già vecchi come i computer della Olivetti di tanti anni fa (tutti i nostri auguri vanno alla nuova Olivetti). E siccome non c’è nemmeno una cultura strategica del mercato nelle aziende italiane, tutti questi discorsi sull’innovazione sono destinati a rimanere discorsi. Hai voglia tu a fare seminari “per la modernizzazione della pubblica amministrazione” quando nei nostri ministeri vengono pagate ancora singole licenze Windows per ciascun computer, mentre esisterebbe gratuitamente Linux e Open Office che fa esattamente le ste
sse cose dei pacchetti Microsoft. Hai voglia a sprecare inutilmente altri soldi per il “patentino europeo”, altra incomprensibile marchetta dei nostri governi per l’uso di prodotti informatici che sono tutto meno che innovativi. Insomma non avete risposto… Ma niente paura, abbiamo una domanda di riserva! Eccola qui: come mai in Italia non abbiamo nulla che assomigli non dico al Massachusetts Institute of Technology ma anche soltanto al MediaLab? Pronti? Via col tempo! …Nessuno risponde? Pazienza, sarà per la prossima volta. Grazie per la vostra partecipazione.
Adesso che se ne sono andati, posso dirvelo. Mi è sorto il dubbio che in un paese come il nostro, destinato a morire tecnologicamente e a sopravvivere solo con il turismo, l’unico business possibile nel settore dell’innovazione, non potendola produrre, sia quello di metterla in un museo. Un’idea che è venuta anche ad un gruppo di appassionati informatici siciliani che, a partire dal 1997, hanno cominciato a raccogliere “reperti” archeologici nel settore che negli ultimi cinquant'anni ha registrato la più potente spinta verso l’innovazione: quello dei computer. Il Museo dell'Informatica Funzionante di Palazzolo Acreide in provincia di Siracusa, è oggi una realtà, complementare a già esistenti musei delle tradizioni contadine, ai siti storici ed archeologici. Una storia dell’informatica immersiva e interattiva: alcune macchine storiche sono online su internet, 24 ore su 24, tutti i giorni, utilizzabili dai visitatori sempre più numerosi provenienti da tutta Italia e dall’Europa. Nato con l’obiettivo di favorire un turismo culturale di alta qualità nel nostro paese, il museo si propone di essere «un luogo di formazione che proietti i nostri giovani verso un futuro diverso, più costruttivo, remunerativo ed appagante». Tutto questo, senza avere fondazioni alle spalle, e nel totale disinteresse e senza aiuti da parte delle Amministrazioni Locali. Un piccolo miracolo fondato tutto sul volontariato. Tanto per ricordare ancora una volta ai nostri burocrati che l'ingrediente principale dell'innovazione è la creatività.