Proprio mentre sto concludendo la stesura del mio prossimo saggio intorno al futuro della pubblicità, esce sull'edizione online del New York Times un articolo di Stuart Elliott dal titolo "Don't Tell the Creative Department, but Software Can Produce Ads, Too" ("Non ditelo al reparto creativo ma anche il software può produrre annunci pubblicitari"). La cosa mi conforta. Non nel senso che finalmente qualcun altro farà il lavoro al posto nostro e ci potremo riposare, no. Ma perché conferma lo scenario che sto descrivendo nell'ultimo capitolo e le sue conseguenze ulteriori. Sorpresa: l'annuncio che vedete qui sotto è stato realizzato da un software di nome CAI (sta per "Creative Artificial Intelligence") sviluppato dal reparto BETC dell'agenzia di pubblicità Euro RSCG Workdwide. Bella botta. Con un colpo solo si dimostra non soltanto che la vecchia "tecnica" creativa è morta e sepolta, ma che sono inutili anche le chiacchiere metodologiche di Kevin Roberts della Saatchi & Saatchi sui "Lovemarks" e tutto il fumo teorico che si sta facendo sul branding. Qui si sta aprendo un nuovo fronte per la ricerca. Roba seria: l'intelligenza artificiale applicata alla formulazione di strategie di comunicazione.
Come funziona questo software? È abbastanza semplice. A mio avviso, è la conseguenza logica di un approccio già presente dagli anni '80 nelle multinazionali del largo consumo come la Procter & Gamble. Si vagheggiava allora di immense raccolte dati, protratte per anni, sulle reazioni dei consumatori a qualsiasi esposizione al messaggio e sulle varianti in cui poteva essere formulato. Loro stessi (i "Cincinnati Guys") affermavano con un certo cinismo che nel tempo il nostro lavoro di creativi sarebbe diventato sempre più difficile, soprattutto se passato al setaccio di database intelligenti che contenessero tutto quel popò di esperienza acquisita. Ma secondo loro era un bene: "Così siamo sicuri che voi, messi in difficoltà dalla nostra knowledge produrrete creatività sempre fresca, e non vi limiterete ad addressare i nostri commenti (parlavano proprio così, mischiando continuamente termini inglesi con l'italiano, n.d.r.). Lo scopo non è quello di automatizzare i processi creativi ma di ottenere sempre il meglio da voi". Lo dicevano per rassicurarci. E a noi già tremavano le gambe. Ma ora si profila addirittura la fine della professione. CAI si può programmare in modo agevole selezionando la categoria di prodotto per cui si intende costruire il messaggio, poi gli obiettivi di comunicazione, il target, e infine i benefit che il prodotto promette. Guardate cos'è capace di fare, ad esempio, per una marca generica di latte
Niente male per uno stupido software. Ma qui c'è da fare ancora qualche considerazione. La prima cosa che viene in mente è un po' l'assurdità di utilizzare nuovissime tecnologie per produrre qualcosa di strutturalmente vecchio. È la nostra forma mentis che ce lo impedisce. L'annuncio stampa è un format vecchio (lo sarebbero anche uno spot, un'affissione, un comunicato radio) e una riflessione metodologica la meriterebbe anche il medium utilizzato. Il discorso si potrebbe allargare al web che è stato dichiarato "morto" da WIRED proprio in queste settimane, e una delle cause potrebbe essere il fatto che per anni ci siamo ostinati ad utilizzare il web come un'alternativa alla tv. Quindi abbiamo usato in modo vecchio un medium nuovo. Altra considerazione, assai più importante, è che la pubblicità arriva sempre in ritardo. Esistono da tempo software intelligenti utilizzati dagli sceneggiatori e dagli scrittori per lo sviluppo di una storia. Com'è possibile che la pubblicità sia rimasta così tecnologicamente indietro nonostante il fatto che con i suoi enormi incassi avrebbe potuto sempre destinare una parte minima di fondi alla ricerca? Semplicemente per mancanza di idee e per inerzia.
Un'ultima, amara, considerazione: perché tutto questo non accade in Italia? Avremmo tutti gli strumenti per fare qualcosa di nuovo anche noi. Diversi nostri atenei dispongono di laboratori di linguistica computazionale che potrebbero essere utilizzati anche per ricerche meno infruttuose di quelle che normalmente producono, magari collegandosi con i pochi centri di eccellenza che pure abbiamo nel settore dell'intelligenza artificiale, magari insieme ai nostri giovani sviluppatori e magari con la collaborazione di coloro che dovranno utilizzare alla fine questi software. Che cosa ci manca? Manca solo la capacità di riunire tutte queste risorse intorno a un'idea. Manca un'intelligenza connettiva. Se ne fossimo capaci l'Italia avrebbe già superato la crisi da un pezzo.