Il multitasking fa male?

Il New York Times si interroga sui "pericoli" del multitasking. L'articolo, intitolatoHooked on Gadgets, and Paying a Mental Price (per dire che siamo perennemente incollati ai nostri gingilli elettronici e per questo paghiamo un "prezzo mentale" presumibilmente alto senza saperlo), non fa che riprendere un report della Stanford University di dieci mesi fa. Sarebbe il caso di considerare un paio di cose prima di arrivare a conclusioni così affrettate.

Secondo una parte dei cognitivisti noi non siamo in grado di elaborare più di una stringa d’informazione per volta (coerentemente con una scuola di pensiero per cui i nostri processi mentali sarebbero algoritmi o macchine di Turing). Magari fosse così semplice. Il fatto è che nei nostri processi cognitivi non concorrono soltanto stringhe d’informazione, ma anche stati emotivi e altri fattori che possono influenzare tutto il processo di elaborazione. Più siamo consapevoli di tutti questi elementi, più possiamo lavorare in modalità multitasking. Questo avviene normalmente nel lavoro degli artisti (e qui occorre sempre ricordare che non tutti siamo artisti). Per fare un esempio, intere generazioni di compositori dell’epoca barocca (dunque, non casi isolati) erano perfettamente in grado di creare strutture polifoniche complesse con un lavoro che di per sé era già multitasking. Si tratta solo di una modalità come un'altra.

Ma anche fra coloro che sono abituati a lavorare in modalità multitasking c'è chi lo fa meglio degli altri, come ha confermato un recente studio dell’Università dell’Utah. Dunque, è possibile affermare che normalmente le persone sono in grado di seguire una sola attività per volta, mentre chi lavora in modalità multitasking riuscirebbe a seguire più attività contemporaneamente. Quello che vorremmo ipotizzare qui è un altro punto di vista che potrebbe includere perfino la teoria cognitivista del “una stringa d’informazione per volta”: chi lavora in modalità multitasking vede l’insieme delle attività gestite come un unico oggetto complesso, non come “tanti” oggetti. Di conseguenza agisce come se stesse elaborando lo stesso processo (pur distinguendone perfettamente i singoli aspetti).

A seconda del nostro livello di consapevolezza noi siamo in grado di affrontare un problema per volta (vivendo tutti gli altri come “interferenze”), oppure possiamo giocare in souplesse con la complessità (considerando la somma di tutte le nostre attività come un’unica attività). E siamo perfino in grado di passare istantaneamente da una modalità all’altra. Considerando le cose da questo punto di vista, il lavoro simultaneo su più livelli, più finestre, più voci o più schemi, è una cosa del tutto naturale.

Nonostante la faciloneria con cui i cognitivisti tirano spesso le loro conclusioni, non esiste una regola unica ma tante quanti sono gli individui con le loro caratteristiche personali. Poi ci sono attività semplici e attività complesse. A volte ci concentriamo su un solo campo, a volte abbiamo bisogno di lavorare in modalità multitasking. Abbiamo diverse abilità e capacità, nessuna è migliore delle altre. Come hanno affermato alcuni ricercatori, il multitasking può ridurre la produttività circa del 40 per cento. Può darsi. Ma questo vale solo per coloro che lavorano meglio su un singolo processo per volta: non esistono soltanto loro. E siamo ancora piuttosto lontani da un modello complessivo della mente. Tentare poi di definire una teoria della produttività che vada bene per tutti gli individui è solo un’immensa sciocchezza.