L’ISIS e le responsabilità dei giornalisti – 2

Su Ahlulbayt TV, canale sciita in lingua inglese con sede a Londra (canale 831 su Sky), è andato in onda due giorni fa ISIS: On The Front Line, un docu/reportage che ci fa vedere la guerra contro lo Stato Islamico da un punto di vista totalmente trascurato dai nostri media: quello del popolo iracheno. Dal racconto dei protagonisti di questa storia è facile dedurre quanto i nostri giornalisti si siano irrimediabilmente adagiati (o adeguati) alla visione ufficiale del conflitto stabilita dai media occidentali sotto l’influenza degli Usa, nel tentativo di descrivere tensioni e odi fra sunniti e sciiti che non esistono realmente nella popolazione.

La chiave di lettura per comprendere a cosa serva questa disinformazione la fornisce Kassim al-Araji, membro del parlamento iracheno e membro senior di al-Badr: «Io credo che il terrorismo non abbia religione. Non c’è realmente una divisione fra sunniti e sciiti e tutti conoscono le cinque scuole dell’Islam. I terroristi non appartengono a nessuna di queste scuole. Costoro aborrono la vita e la pace. Noi riteniamo che l’Iraq sia attualmente sotto attacco da parte di terroristi. Ed è per questo che tante persone che appartengono a tutte le confessioni si sono unite per combattere il terrorismo, compresi i sunniti che sono nel governo. Invece, abbiamo notato che i media occidentali hanno tentato di fornire informazione non corretta allo scopo di creare una tensione settaria e causare divisioni nel popolo iracheno, ben sapendo che se l’Iraq diventa stabile si diffonde la pace in tutta la regione. Poiché in Iraq convivono arabi, curdi, sunniti e sciiti, la stabilità dell’Iraq è un fattore estremamente importante per la regione».

Ciò che risulta evidente in tutto il documentario è come la popolazione irachena percepisca nettamente l’esistenza di una volontà di creare il caos nel paese per causare un effetto domino che si trasmetterebbe a tutti i paesi vicini. L’ISIS serve esattamente a questo, e questo è infatti uno dei punti del suo programma, spiegato fin dal primo numero della rivista Dabiq uscito a luglio 2014. Quasi nessuno dei nostri giornalisti ha avuto la serietà di andarselo a leggere, si capisce da quello che scrivono. Ma se esiste questa volontà di destabilizzazione, e la disinformazione favorisce le condizioni in cui può realizzarsi, allora i giornalisti che evitano in tutti i modi di indagare i veri motivi di questa guerra cominciano ad avere già parecchi morti sulla coscienza. Ammesso che ce l’abbiano ancora.